Verso #13,  2015 - 50x60 cm - Gelatin silver print - Edition of 7 (particolare)


Multiverso, 2015




Testo critico:

Antonio Vitale

L'imperfetto perfetto - Multiverso


In un mondo che corre velocemente, fatto di molte parole, l’equivoco che accompagna la fotografia risiede nella sua stessa apparente natura, nella sua disarmata accessibilità, col suo essere subito e di tutti, a portata di tutti, per tutti i momenti: pensare che sia sufficiente fissare lo sguardo su qualcosa, in qualsiasi direzione, per essere capaci di “raccontare una storia”. Se è vero come è vero che una fotografia per genesi, ritaglia, elabora o cita le cose del mondo, il nocciolo della questione risiede nel fatto che essa diventa materia d’arte se il fotografo nel cavalcare le proprie idee, e quindi fattivamente nell’operare all’interno di un contesto naturale e reale delle scelte apparentemente escludenti, è capace di innescare una “risonanza” con se in primis e una “chimica” con gli altri, a ruota, azioni entrambe sollecitate da connessioni attrattive razionali o inconsce, dilatate, inattese, multiple e per questo emblematiche.
L’entropico fascino di una prolissità di visioni, e quindi di esiti, stimola ed affascina i passi di Attilio Scimone fermo nella convinzione che la forma trasfigurata, sconosciuta ad un consueto sguardo, sia percorribile e comunque possibile, in una sorta di elogio del “così è se vi pare”. 
Scimone in questo viaggio non ha mai perso di vista la naturale illusoria sostanza delle cose che, ri-formate, esprimono il suo pensiero affermando un percorso artistico che gli ha sempre permesso di cogliere nel segno quando dalle intuizioni è passato alla materia (poetica) delle sue opere, ora più che mai, espressione significante di ritmi, temi, attese, singhiozzi, tecniche e ricerche mature e ferme.
Lunghi, stimolanti e senza mai sosta sono per lui, dall’80, gli anni della ricerca tra sperimentazione ed azione a cui “le cose” sono chiamate a con-correre, per trovare e trovarsi in un territorio solo proprio, dove raccontare con guizzo esclusivo un mondo latente, emotivo ed emozionale.
Intensa ed assoluta ciascuna delle sue ultime opere appartenenti al ciclo dal titolo “verso”, in cui ogni presenza di soggetto o di oggetto abita nel buio di uno spazio nero assoluto, attratta o immersa in una luce che appare, ma che mai pienamente rivela il mistero che aleggia in ciascuna scena rappresentata. 
In particolare, nella serie dedicata alle figure femminili, Scimone richiama alla mente immagini “pop”, nel senso che appartengono alla memoria fotografica diffusa di tanti e più, e muovendosi in questa direzione definisce la sua artisticità eclettica che si sviluppa come sommatoria di una molteplicità di fattori che attengono alle relazioni e agli sviluppi del suo vissuto fin dall’origine di una “visione intimista”, che è impronta vitale da cui far liberamente fluire l’intimo processo creativo delle sue immaginifiche rappresentazioni fotografiche. 
Tali figure diventano il pretesto di uno “spettacolo” messo in scena nel teatro interiore di Scimone, incarnando le più diverse condizioni mentali, gli atteggiamenti umani e i retaggi culturali che riguardano tutti noi in ogni tempo; sicché, cercando con sintesi di sostantivare l’essenza impressa nelle sue opere, ci si trova a dialogare con: il dubbio nell’opera “verso#03”, l’inquietudine in “verso#06”, la coscienza in “verso#09”, la provocazione in “verso#10”, l’inquieta fantasia in “verso#11”, mondi paralleli in “verso#13”, l’attimo che rimane nel tempo in “verso#16”, andare oltre in “verso#17”, il ricordo in “verso#20”, il significato traslato “in verso#23”.
Dalla figurazione Scimone è capace poi di giungere ad esiti puristi quasi astratti, se con tale termine si vuole intendere un’assoluta essenzialità compositiva, dove lo stile non si sovrappone al sussurro, ma lo comprende.
Nelle sue opere si avverte spesso un accento enfatico, che si ritrova nella voce solista di singoli e solitari oggetti, come un vaso dall’atteggiamento fiero e ieratico, una conchiglia simile ad un ventaglio, dei fiori secchi dalla geografia molecolare, un’ampolla di cristallo per profumo con nostalgica pompetta anni ’50 per perpetrare l’essenza di un attimo all’infinito; che però poco indulge verso l’esasperazione del dire, verso la spettacolarizzazione dell’angoscia. “Vivere la vita non è attraversare un giardino” per dirla con Pasternak, ma nel giardino della vita è possibile cogliere nelle semplici cose il profumo della “verità”. 
La lettura di queste opere, tra soggetto e oggetto, sollecita la volontà di approfondirne la comprensione, il respiro. Da qui l’occhio attento di Scimone nella cornice del suo obiettivo fotografico si sposta di opera in opera su aspetti complementari, “multiverso”, creando rimandi, stabilendo connessioni che concorrono a raccontare in modo unitario un sentimento universale che si spinge fino allo scollamento nell’idea di “mondi paralleli” che coesistono e interagiscono secondo la moderna visione della “fisica quantistica” che contempla, ad esempio, il dualismo onda-particella. Per cui se fotografare significa “scrivere con la luce”, e la luce è un esempio emblematico di doppia natura di onda e particella, allora per Scimone in queste opere sul piano ideativo si stabilisce il “disegno” di voler agire sui due elementi che “colorano” la luce di una fotografia, cioè il “tempo” come processione infinita di attimi e il “diaframma” come attesa scelta per un’osservazione. Tale volontà si traduce in “multiverso” che diventa con queste opere manifesto di un modo non a senso unico di vedere le cose: un personale inno al pensiero libero.
Una vicenda artistica quella di Scimone complessa che è al contempo strumento di ricostruzione simbolica del reale, ma anche cancellazione e modificazione di questo, così come accade in pittura. La sua opera pre-vede, ma cerca anche l’imprevisto, i cortocircuiti semantici tra immagine, oggetto e scrittura. Ed è a proposito di “scrittura” che la determinazione ideativa di Scimone sprofonda con tutta se stessa nel lirismo di una rivisitata neo “poesia-visiva”, con opere dal timbro asciutto ed epigrafico, dove l’alfabeto segnico concepito è, a volte, il risultato espressivo di una natura ri-ordinata, altre, l’approdo randomico e distratto di un avvicinamento che accomuna oggetti diversi per natura e destino. Il risultato diventa, in pieno spirito di “scrittura visuale”, una voce che non informa ma che allude, mediante un racconto diversamente incisivo, che dichiara un’intenzione fino ai limiti dell’accadimento. 
È il ricordo e successiva sedimentazione di viaggi intrapresi e mai interrotti “affrancati” da un tempo che si logora e matura, lo scenario di “verso#08”. È il movimento senza sosta di piegati segni simili a vorticanti danzatori colti nella leggerezza di un’odorosa brezza quella dell’immagine che si offre in “verso#12”. È, infine, la magia di luoghi lontani che profumano di memoria e d’oriente quella che si respira nelle opere “verso#21” e “verso#22” . 
L’opera di Scimone possiede una visione europea non tanto perché guarda all’Europa, quanto paradossalmente per il contrario: ovvero, approfondendo le proprie ragioni, le proprie radici, i propri luoghi, giunge ad esiti di assoluta e condivisa qualità espressiva. L’unicità del suo discorso, che è unicità del suo sguardo, lo rende proiettato in un orizzonte globale per la singolarità del suo accento. Scimone, infatti, si appropria di categorie estetiche e ne dà un’interpretazione originale, quasi sempre non ortodossa attraverso della “segnature” sottili, graffiature singole o multiple, assiepate di buio o accecate di luce. Il segno come il graffio diventa elemento minimo legato al valore del singolo sentimento, all’idea di quella “bellezza” che come dice Goethe è “ferita”. Questa sua inconfondibile “impronta” polarizzata all’esaltazione della fuggevolezza del segno, che nel confondimento dei contorni non annulla l’opaca corporeità delle cose, lo pone come figura significativa della fotografia contemporanea. 
Il mondo trovato da Attilio Scimone è “l’imperfetto perfetto”.


Catania, 30 gennaio 2015