Women in non descript landscape #5,  2016 - 60x50 cm - Gelatin silver print - Edition of 7 (particolare)


Women in nodescript landscape




Testi critici:

Alberto Giovanni Busio, 

Giuseppe Alletto

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 Paesaggi intimi, Multiverso, Silenzi, Still, Women in nondescript landscape sono i luoghi più recenti dell’itinerario di Attilio Scimone dentro il silenzio e lo spazio. Passi e cammino rimasti fedeli alla materia e luce che fa da titolo alle ricerche svolte tra il 1990 e il 2010. Nelle immagini di quegli anni la luce si raggrumava dentro la materia che era stata viva, pur se umilissima. Erano infatti erbacce di campo che trasumanavano e trasfiguravano nel tocco del fotografo che dava loro forma, profondità, sostanza. Poi però lo spazio si è spalancato e le spine dei campi sono diventate i graffi dell’artista sulla materia fotografica. Sentieri, onde, terre, piante, grano vengono accomunati dal tocco della dissoluzione. È soltanto questione di tempo. Tempo del quale Scimone dice che è "un cerchio che finisce" ma che nella circonferenza di questo suo stare, sorgere e finire raccoglie figure femminili dentro l’aria, umani accompagnati dalle cose, silenzi di pietra e architetture di suoni, muri edificati dalla storia e colline plasmate dalle sere. Tra le erbe, i silenzi, i graffi e le onde si staglia finalmente la bellezza. La bellezza per antonomasia, la bellezza paradigma, la bellezza che ci turba, ci avvolge, ci vince e fa felici. La bellezza della donna. Multiverso le raccoglie, queste donne. Le raccoglie mentre sinuose avanzano coi tacchi dentro il grano o elegantissime sembrano supplicare la loro stessa pacata gloria. Le raccoglie mentre posano distanti dallo sguardo e dal desiderio del fotografo e mentre avvolte nel nero arcaico di Sicilia si accingono a riempire di sé i luoghi, la pellicola, le voglie, la memoria. La memoria, il tempo perduto, la sua rimemorazione data dagli eventi apparentemente più banali, da quelle che Proust ha chiamato les intermittences du coeur, gli intervalli della mente tra gli istanti, nei quali la potenza dei fatti e delle cose sembra rifiorire intatta come è stata. C’è non poco di proustiano nel fotografare di Scimone. Perché Proust - come tutti nella sua epoca - viveva immerso nel bianco e nero. Per quanto oggi ci sembri singolare, infatti, ancora nei primi decenni del Novecento tutte le riproduzioni artistiche erano monocromatiche. La maggior parte dei quadri descritti da Proust e discussi dentro il suo romanzo lo scrittore li vide riprodotti in immagini fatte di bianco e di nero. Ma è stata anche questa difficoltà nel vedere il colore a rendere possibile il particolarissimo modo in cui Proust parla dei pittori e la continua creazione di colori di cui si compone la Recherche. Il bianco e nero diventa infatti la memoria che crea il mondo, il suo derularsi, diventa gli spazi, gli umani. Lo stesso accade in Scimone. Ma la differenza c’è. Ed è profonda, è grande. Scimone non guarda quadri, non vive nella luce rarefatta di Parigi e dell’Europa più distante. Scimone immagina la luce del Sud, delle sue pietre, del suo spazio asciutto, inaridito, secco. Le sue fotografie assorbono la disperazione mistica e felice delle terre infuocate da millenni di Sole, abitate dal lutto e dalla gloria, viventi nella servitù e incoercibili nell’anarchia. La natura che l’artista rende viva è fatta di disordine e di necessità, del giallo di campi riarsi e di un cielo senza pace, di quell’implacabile turchese che il suo stile ci restituisce fatto grigio e quindi ancora più bruciato. Il movimento e lo stare degli umani sono intrisi nelle sue immagini di una solitudine senza salvezza, di una diffidenza senza futuro, di una solidarietà monadica che ignora la communitas. La forma di questo artista sobrio e però spietato è intramata dell’ironia che sta al fondo della morte e che nell’ultimo tratto della propria fatica si piega lentamente verso il sonno invocando ancora una volta la Madre. Perché è chiaro che le donne di Scimone sono la Madre quando ancora non era tale, quando costituiva il sogno erotico e silente della terra, quando era ‘signorina’ e già con questo solo nome scatenava il desiderio. Donne vestite di nero. Donne antiche pur nella loro giovinezza. Donne potenti nella loro distanza. In queste femmine, in queste spine, in questi sentieri, in questi graffi in questi arbusti, in questi soli, la vita è la tenebra che rende possibile ogni luce, l’esistenza è un arrendersi che non conosce sconfitta.

 

Alberto Giovanni Biuso, 2018

 

Figure che diventano paesaggio nell’austerità del bianco e nero in una visione del paesaggio siciliano che torna ad essere popolata da figure mute e indecifrabili alla riscoperta di una dimensione mediterranea e oscura senza tempo. Quelle di Scimone è una riflessione sullo statuto della fotografia, che lo spinge ad affermare a costo di graffiare il prodotto della macchina. Il fotografo si fa qui promotore di una disperata umanizzazione dell’elemento meccanico. L’immagine viene inesorabilmente seviziata e sembra volere emendare l’imago sottoponendola a un lungo processo di purificazione...cariatidi moderne alla Paul Delvaux. Si muovono come pantere, come femmes fatales dal nero delle vesti cariche di minaccia. La donna di Scimone tornano ad essere femmine, incarnazioni delle forze ctonie sempre tese sovvertire l’ordine. Esse sembrano fatte della stessa materia della terra, delle pietre e l’immagine monocroma non fa che cristallizzare e dare sostanza alle loro apparizioni fantasmatiche.

Giuseppe Alletto, 2016