Emotion and seascape-2,  2013 - 60x50 cm - Gelatin silver print - Edition of 7 (particolare)

 

Paesaggi intimi, 2013

 

 

 

Testo critico:

Diego Gulizia

Basta sfogliare una qualsiasi storia della fotografia per vedere che quest’arte, fin dai suoi albori, ha privilegiato come soggetto il paesaggio e l’architettura, per poi spostarsi alla ritrattistica della borghesia e, successivamente, della gente comune.

I motivi, di certo, erano più legati ai tempi di posa, inizialmente molto lunghi, che rendevano difficile la ritrattistica umana, restia a restare immobile per almeno otto minuti o più davanti alle prime macchine che simulavano le camere oscure, per ottenere, alla fine, ritratti con occhi chiusi e atteggiamenti innaturali.

Il paesaggio, invece, per la sua apparente immobilità, assecondava i tempi di posa e consentiva riprese miniaturistiche della realtà così fedeli da trasformare la macchina fotografica nello strumento ideale per ricercatori e viaggiatori. Fin dai suoi primordi è stato un valido supporto utilizzato da tantissimi pittori e incisori. E’ conosciutissima la serie "Excursions daguerriennes" pubblicata a Parigi nel 1840, con  la quale l’editore francese Lerebours trasformò in acquatinta la grandissima quantità di dagherrotipi che gli perveniva da diverse parti del mondo.  

Mentre nella pittura il paesaggio, come soggetto autonomo, appare nei primi del seicento con “La fuga in Egitto” del 1604  di Annibale Carracci, dopo almeno quattro secoli d’incubazione, possiamo dire che la fotografia nasce, inizialmente, con il paesaggio.

Da allora è certamente passato un bel po’ di tempo, ma il soggetto continua a mantenere la sua freschezza ed essere un soggetto interessante per gli artisti ed in particolar modo per i fotografi. Lo stesso Scimone ha prodotto per la Provincia di Caltanissetta ben quattro volumi ove ha ripreso gli aspetti più interessanti del comprensorio nisseno con i suoi ambienti urbani, le sue connotazioni paesaggistiche, le sue contrade, le sue vie di comunicazione, le sue risorse idriche. Non contento di questo, né, tantomeno, dei suoi lavori sull’archeologia industriale, del suo reportage in B/N della città di Caltanissetta o delle sue incursioni nell’ambito di tematiche particolari che coinvolgono il paesaggio e la sua storia, come “Miniere e religiosità",  ha anche realizzato il bellissimo  “The Scene - Sicilian Landscape” del 2008, ove il paesaggio si interiorizza diventando uno stato d’animo.

Dopo il suo ultradecennale impegno nella ricerca pura, che lo ha visto presente nelle maggiori mostre collettive che si sono tenute negli ultimi anni o, addirittura, nelle personali plurime che si sono tenute alle Ciminiere di Catania, assieme ai maggiori nomi di scultori e pittori che operano nell’ambito della  ricerca artistica, perché Scimone ritorna ancora sul tema del paesaggio e lo fa con gli strumenti della fotografia tradizionale?

Parafrasando Picasso, vogliamo dire che il paesaggio ha ancora molto da esprimere?

Il paesaggio appartiene tanto agli occhi quanto all’anima. La visione di una scena paesaggistica nel darci informazioni sulla forma del territorio, sugli uomini che lo vivono e, ancor più, che lo hanno vissuto, su come lo hanno antropizzato, sui resti che lo hanno alterato e sul come vi hanno impresso segni particolari,  estrae maieuticamente il nostro vissuto, stimola l’emergere di tracce mnestiche, richiama esperienze personali e sensoriali, in uno, genera emozioni.  Essa non viene interiorizzata come dato oggettivo, non si presenta come indistinto flusso di informazioni acritiche e fredde, al contrario, nel suo processo di interiorizzazione, essa si carica della nostra storia, delle nostre esperienze. Essa acquisisce i limiti fisiologici del nostro sguardo, dalla dettagliata ricezione e messa a fuoco foveale di una sommatoria di particolari nitidi e distinti che si caricano di contenuto e significato, alla percezione sfocata della visione periferica.

Una componente sostanziale che gioca un ruolo di primaria importanza nella generazione emozionale è sicuramente il colore. Le albe e le aurore con i loro colori pastello, i bruni e le terre di Siena del meriggiare vespertino, i gialli e i verdi delle terre assolate o la compenetrazione di azzurri foschi che annullano gli orizzonti marini.

Ma nelle opere di Scimone  il colore non c’è per cui non s’innesca quel processo di generazione emozionale legato all’aspetto cromatico: le opere sono rigidamente in bianco e nero.

Allora, perché Scimone persevera con la fotografia di paesaggio? Probabilmente, perché è l’artista che attraverso il paesaggio, come Picasso attraverso il figurativo, ha ancora molto da esprimere.  Il contenuto nell’opera d’arte è un espediente per esprimere se stessi, non importa cosa si rappresenta, importa, invece, come lo si rappresenta.

Ecco, allora, tutta una serie di opere che, abbandonando la tradizionale visione isolazionista del percetto visivo riassuntivo ed esaustivo, si combina e si dispone, non sempre con apparente omogeneità e coerenza contenutistica, intercalando tra di esse vuoti e pause, silenzi fotografici e soste visive.

Ciascuna opera si coglie tanto nell’assoluta essenzialità della sua esistenza,  quanto nell’essere e nel far parte di un contesto e di una composizione che ne dilata  e amplia i contenuti, ora per omogeneità, ora per contrasto, ora per assonanza, ora  per rimando e ora per somiglianza. Le scelte non sono mai improvvisate. Le combinazioni appartengono alla scelta e aggiungono all’opera qualcosa che l’opera, colta nel suo valore assoluto, non sempre riesce a comunicare.

I profondi neri, coniugati con i contrastati bianchi e sposati alle modulazioni di grigio, ricompongono soggetti apparentemente scontati: il campo di grano ondeggiante di spighe, lo spiaggiarsi spumoso del mare, il bosco con la verticalità dei suoi tronchi e la rugosità della loro corteccia, il flutto che accumula alghe sulla battigia, l’acqua che incendia i ciottoli del mare, la bruma che alleggerisce la delineazione del giorno, i macconi bruciati dalla luce meridiana,   le rocce levigate e assorbite dalla sabbia, l’addensarsi dei nembi e l’irradiarsi della luce del sole riflessa dalle nubi, le pietre accumulate sul puntale, i filari paralleli di stoppie, la collina coperta da margherite primaverili o la banchina della strada asfaltata segnata di nero. Come assonanze visive si accostano, di tanto in tanto, i cardi, il giacinto romano, le cannucce di palude,  composizioni still life o omaggi visivi ad altri artisti, che riecheggiano una ricerca fotografica che in parallelo  assorbe il suo interesse.

Bianchi , neri e grigi concepiti come tali, con scatti che hanno tenuto in debita considerazione le forme degli oggetti, la loro trama e i toni dei colori, così come appaiono alla luce policroma del sole, per catturarli nella maniera più dettagliata possibile, prestando attenzione alla qualità della luce per far si che tutto quanto era presente e peculiare non si perdesse al perdersi del colore.

Bianchi, neri e grigi colti nella loro direzionalità, assecondando ora l’orizzontalità o la verticalità con una impaginazione parallela o contrastandola con una impaginazione perpendicolare, per sostenere il fluire dello sguardo, ora accompagnato e ora ostacolato, fino a che la costrizione del formato quadrato non lo spinge in profondità.

Bianchi, neri e grigi  che manifestano tutta la loro potenza espressiva su supporti pedissequamente e certosinamente scelti, frutto di decenni di studio e di ricerca, affinché il valore di luminosità del colore  rappresenti l’oggetto compiutamente, anche in assenza della tinta.

Ma la percezione e la fruizione dello scatto fotografico, per Scimone, non poggia sul morbido tappeto dell’emozione, del sentimento, della sensazione; l’artista non vuole il completo coinvolgimento emotivo, l’atteggiamento da divano di casa con un emisfero cerebrale addormentato e l’altro che gode completamente. La foto è arte e come tale necessita di un coinvolgimento assoluto. Gli emisferi cerebrali devono essere tutti e due presenti per comprendere il messaggio ed ecco il graffio e l’abrasione trasportati dalla luce sulla carta emulsionata unitamente alla traccia mnestica dello scatto fotografico. Oculatamente  studiato ora per sottrarre informazioni alla vista e richiamare il vissuto del fruitore ad integrare quanto manca e ora per direzionare lo sguardo ove maggiormente il messaggio visivo si concentra, il graffio appartiene a Scimone come i manichini a De Chirico e le forchette a Capogrossi.

L’operazione che Scimone compie ci ricorda, per un verso, l’azione che Isgrò compie sul testo o sulle carte geografiche, ove  l’occultamento, piuttosto che togliere valore al particolare, lo carica di maggiore attenzione ed energia percettiva, mentre, dall’altro verso, ci riporta ai tagli di Fontana, che, escludendo  le dimensioni fisiche dell’opera, ci costringono a concentrarci sulla profondità.

Parafrasando ancora Picasso, possiamo dire che il paesaggio, come il figurativo in pittura, ha ancora molto da esprimere quando esso non è più l’oggetto della ricerca e quando l’artista, su di esso, compie il suo intervento creativo, oggettivando e fissando indelebilmente una dimensione spirituale precedentemente inespressa e testimoniando, così, il contributo che, con la realizzazione dell’opera, offre alla società per estenderne i limiti percettivi, la sua capacità di comprensione e, in uno, accrescere in dominio di quello stesso codice con cui egli si esprime e che, dopo di lui, la stessa umanità utilizzerà per comunicare.

 

Diego Gulizia, 2013